PASSIONE, FOLLIA, SUICIDIO – di Maria Giovanna Ruo

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Anche questo anno, il 6 e 7 giugno, Cammino propone una riflessione nel VI incontro del ciclo Tra mito e attualità partendo dalle tragedie greche rappresentate a Siracusa nella splendida e suggestiva cornice del Teatro Greco e proposte dall’INDA-Istituto Nazionale del Dramma Antico. E anche questo anno, su programma pensato da me con Maria Rita Ielasi e Maria Barbara Giardinieri, si indagheranno temi profondi dell’essere donne e uomini. Anche questo anno illustri relatori hanno accettato la sfida di evocare suggestioni non solo giuridiche partendo da due tragedie i cui protagonisti sono sconvolti dalla passione, tanto da perdere (forse) il senso della realtà e da uccidersi.

Fedra Ippolito portatore di corona, di Euripide, vede la donna, moglie di Teseo, innamorata perdutamente del figlio di questi, Ippolito, sconvolta dal desiderio di congiungersi con lui. Ma Ippolito è un tipo strano, un po’ controcorrente: ha dedicato la sua vita ad Artemide, la dea della caccia, degli animali, della natura e del tiro con l’arco, protettrice della verginità e della pudicizia. Predilige le corse dei cavalli, che doma insieme ai suoi amici.

Rifiuta la donna che cade in una depressione e comincia a sragionare, devastata dalla passione; si uccide, ma il suo suicidio è al contempo occasione costruita di uno spietato disegno vendicativo nei confronti dell’uomo che ha osato rifiutarla. Prima di impiccarsi scrive una lettera in cui accusa Ippolito di aver abusato di lei. Teseo trova nelle mani del cadavere la lettera, non ha un minimo tentennamento. Ippolito è colpevole e lo esilia. C’è una persona a conoscenza della verità: la vecchia nutrice. Tuttavia Ippolito le ha giurato silenzio e questo “strano” uomo, al di fuori di tutti i canoni, resterà fedele al giuramento. Teseo, letta la lettera accusatrice di Fedra, è convinto, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che Ippolito è colpevole: lo esilia. I cavalli che portano il carro su cui sta partendo da Atene per non farvi mai più ritorno, imbizzarriscono; Ippolito è trascinato, sbatte la testa, viene portato dal padre e, mentre muore, la verità viene svelata. Troppo tardi…

La passione che stravolge la mente e porta morte per vendetta è un tema che ritorna in molti femminicidi che spesso finiscono anche con il suicidio dell’autore. Ma questa tragedia fa riflettere anche sul tema del pregiudizio: Ippolito non può che essere colpevole in quanto accusato dalla vittima in punto di morte e in quanto è inverosimile che non abbia avuto rapporti con Fedra. L’accusa di questa è LA prova che non ne ammette di contraria perché Ippolito è un “diverso” e, come tale, non ha considerazione, non può essere collocato nella dinamica degli eventi se non come colpevole. Ed è tanto “diverso” che nemmeno infrange il giuramento per salvarsi dall’esilio. Il padre rimane travolto dal suo stesso pregiudizio, perdendo moglie e figlio e quest’ultimo per averlo giudicato in base ai criteri politically correct.

Il tema della follia e del suicidio tornano in Aiace, di Sofocle: siamo durante la guerra di Troia, Achille è morto per mano di Paride. Aiace, profondamente legato a lui per amicizia, insieme a Ulisse si reca a recuperarne il corpo in mezzo ai nemici. È il valoroso Aiace che li impegna combattendo: mentre Aiace combatte e, da solo, tiene a bada tutti i nemici, Ulisse carica il corpo dell’eroe morto su un carro e torna al campo degli Achei. Secondo la tradizione le armi di Achille debbono essere consegnate ad altro eroe. Aiace è convinto che gli saranno date ma gli viene preferito Ulisse. E Aiace che è un uomo onesto, valoroso, leale, ritiene che vi siano stati “brogli” nella scelta, che Ulisse, capace di astuzie, abbia in un qualche modo condizionato i giudici che dovevano decidere la sorte delle armi di Achille. Ritiene di aver subito un gravissimo torto, un’ingiustizia, e impazzisce: si impadronisce di lui un desiderio di vendetta. Credendo di uccidere i suoi compagni d’arme, e volendoli uccidere, colpisce invece gli armenti, grazie all’intervento di Atena. Quando rinsavisce e si rende conto di quello che ha fatto, non riesce a sopportarlo e, allontanatosi dal campo, si ucciderà con la spada che Ettore, dopo il combattimento finito alla pari, gli ha donato. I capi dei Greci, Menelao e Agamennone non vogliono dargli sepoltura ma interverrà Ulisse che dimostra come lui stesso sia stato giudicato dall’eroe morto suicida in base a un pregiudizio, perché lo riteneva un furbo e disonesto, ma sarà invece grazie al suo intervento che Aiace sarà sepolto.

Aiace è il prototipo dell’uomo tutto di un pezzo, valoroso e leale, che non tollera l’ingiustizia e che, ritenendo di esserne stato vittima, non esita a distruggere tutto: e distruggendo tutto, vanifica anche se stesso. In definitiva distrugge anche se stesso, tanto da non poter sopravvivere a tale distruzione.

Suicidio, passione e follia sono i minimi comuni denominatori di questi due drammi: spesso nelle nostre vesti di avvocati delle persone, dei minorenni e delle famiglie, assistiamo a tragedie che sembrano dettate da perdita del senso di realtà. La passione che sfocia in follia. La vendetta e la ritorsione che gettano una sinistra proiezione nel vivere delle persone che non riescono a ricostruire relazioni.

Il suicidio evoca molti drammi contemporanei: i suicidi in carcere, un atroce numero crescente perché le nostre carceri sono luoghi invivibili, in cui la dignità umana è spesso calpestata e la Corte EDU ci ha condannato per questo. Vengono in mente i suicidi crescenti dei giovani, in particolare dopo la pandemia, per l’isolamento che hanno subito, ma anche quelli suggeriti, stimolati, da “giochi” multimediali o dal cyberbullismo per il vuoto valoriale che il nostro mondo propone; viene in mente il suicidio assistito e la scelta libera e coraggiosa di chi ritiene intollerabile la prosecuzione della propria vita perché al di sotto dei limiti della dignità umana. Scelte che debbono essere considerate con umiltà, attenzione, rispetto, in ragione della vulnerabilità dei protagonisti e dei diritti fondamentali coinvolti, rifuggendo da soluzioni stereotipate e dal politically correct, che spesso è solo fonte di pregiudizio.

Non ci si può non interrogare su ciò che voglia dire follia, la perdita dell’arco di senso della misura umana, cui, anche se in proporzioni più ridotte, assistiamo con crescente frequenza dai nostri tavoli di lavoro: la vendetta, la ritorsione, l’assenza di capacità di superare il torto subito per aprire una nuova pagina dell’esistere. Situazioni che rendono difficile il nostro lavoro di essere avvocati per le persone, che siano in grado di contenerle, promuovere un cambiamento, costruire nuove relazioni. Che, in fondo, dovrebbe essere il nostro ruolo.

Questo il senso profondo di questo incontro: formarsi per avvocati per le persone, per i minorenni e per le famiglie non è solo impadronirsi delle tecnicalità del diritto sostanziale e processuale: è anche (e soprattutto mi sembra di poter affermare) riflettere sui drammi umani che animano quotidianamente il nostro lavoro. Altrimenti si scade nel tecnicismo e si tradisce il senso stesso dei diritti fondamentali la cui difesa costituisce nostro ruolo costituzionale.

Di Fedra e Ippolito parleranno, con Maria Rita Ielasi, Ettore Battelli, Mario Calogero, Francesco Cannavà, Giovanna Ollà, Dorotea Quartararo; concluderà Davide Piazzoni.

Di Aiace parleranno, con Maria Barbara Giardinieri, Antonio Balsamo, Stefano Callipo, Roberto Giovanni Conti, Veronica Milone, Francesco Pira, Filippo Romeo, Rita Russo; conclude Sabina Pellizzon.

La mattina del 7 si svolgerà un incontro a cura dell’Università Kore di Enna, Dipartimento di Studi classici, linguistici e della formazione e dall’Associazione Amici dell’INDA. Con la Prof.ssa Marinella Muscarà, direttore del Dipartimento, animeranno la mattinata i professori Sonia Macrì, Flavia Zisa, Giuseppe Burgio e Andrea Rabbito; con il presidente dell’associazione Amici dell’INDA, Giuseppe Piccione, parteciperanno gli attori Luca Micheletti, Alessandra Salamida, Gaia Aprea, Ilaria Geniatempo, Diana Manea.